Ora et labora
Aggiornamento: 16 ott 2023
Correva l’anno 2000. Mi trovavo in trasferta nella mia amata Siria, a Latakia, nell’ufficio di Soubhi Joud, uno dei nostri più grandi clienti; uno di quelli che il riso lo comprava a decine e decine di container, mica bruscolini.
Un ufficio lussuoso, sobrio e imponente, così come l’imprenditore che sedeva di fronte a me. Stavamo contrattando prezzi e condizioni per tutta la stagione; una montagna di riso e un mare di denaro, per entrambe le aziende. Ero concentrata, attenta, in testa tutti i numeri e anche un po’ di ansia da prestazione. A 28 anni ci sta, soprattutto quando siedi di fronte ad un imprenditore così grande che gestisce ben più del riso.
Nel bel mezzo della contrattazione mi ha interrotta:
È giunta l’ora della preghiera, mi allontano per dieci minuti e riprendiamo dopo.”
Io sono rimasta lì, stupita inizialmente e poi incantata dalla bellezza del gesto e del messaggio. Perché è giusto così, è giusto che ci sia qualcosa di più alto del denaro, della nostra quotidianità, del nostro correre giornaliero e dei nostri affari. Qualcosa a cui dedicare anche solo dieci minuti durante il corso della giornata, qualcosa di più alto e nobile. Preghiera, meditazione, connessione con il divino… possiamo chiamarla in molti modi, ma ne abbiamo bisogno sempre, come persone e come professionisti. È anche questo che ci distingue dalle macchine, no?
Sono rimasta lì, a pensare che effetto avrebbe fatto se, una volta tornata in Italia, avessi interrotto una qualsiasi riunione dicendo che andavo a pregare e che avremmo ripreso dopo; una volta in più ho messo in dubbio che sia la nostra la civiltà più evoluta. Del resto, ora, mentre scrivo, mi sovviene che, alla fine, neanche io l’ho mai fatto, non ho mai interrotto una riunione dicendo che era giunto il tempo di collegarmi con il divino. Sarà che, a differenza dell’Islam, non ci sono momenti determinati per pregare nella nostra religione e releghiamo il nostro rapporto con Dio a momenti di raccoglimento in solitudine oppure in luoghi ed edifici ben precisi, non so. Di fatto non ho mai sentito nessuno, a queste latitudini, interrompere una riunione dicendo che era giunto il momento di pregare, meditare, raccogliersi; talvolta vi è stata qualche pausa sigaretta che, tutto sommato, è un’altra forma di raccoglimento. Nulla più.
Sarebbe bello però, che nel bel mezzo di una riunione, di quelle serie e importanti, con le presentazioni, i numeri, i grafici, le proiezioni e decisioni importanti da prendere, qualcuno dicesse: “Liberi tutti: è giunto il momento di collegarci con il divino, poi andiamo avanti”. Allora sì che tutto il business potrebbe diventare davvero bello ed etico, finalizzato al bene comune. Chissà, se ci fosse stato qualcuno così nelle riunioni della WTE, non avrei provato tanta amarezza nel leggere dei liquami tossici sversati nei campi agricoli nel mio amato Piemonte perché, semplicemente, non l’avrebbero fatto. Lasciamo stare.
È in questi momenti che ricordo Soubhi Joud, il suo impero e il suo tempo per il divino. Poi penso a Gino Girolomoni, per cui dare valore alla terra e dignità agli agricoltori era una forma di preghiera oltre che una ragione di vita. Infine osservo con gratitudine i pendii delle colline menfitane ricoperte dai vigneti e ringrazio Diego Planeta per aver reso possibile tanta bellezza. Perché:
“Ciò che facciamo in vita rieccheggia nell’eternità”
(ci sta anche Russel Crowe ne Il Gladiatore, per essere anche prosaici).
Questo, un manager del terzo tipo, lo sa.
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